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Il Regno Unito abbandona il fallimentare sistema del “franchising”, introdotto con la privatizzazione delle ferrovie negli anni Novanta. Il trasporto pubblico è ora chiamato a immaginare come sarà il mondo dopo la pandemia

da Sbilanciamoci.info

Il primo incarico che ho ricevuto quando ho cominciato a lavorare per il Government Economic Service britannico, nel 2017, riguardava il Personal Independence Payment, un sussidio diretto a persone con disabilità. Per qualificarsi a riceverlo i cittadini si devono sottoporre ad una valutazione delle proprie condizioni di salute. L’esame viene svolto da due società private, naturalmente in regime di monopolio, in due diverse aree del paese. Il loro contratto sarebbe scaduto di lì a poco e alcuni dei lavori preparatori per le trattative di rinnovo erano stati affidati ad un mio collega. Quest’ultimo – un analyst come me, ma fisico di formazione (un brillante astrofisico con laurea e dottorato di ricerca a Cambridge, per la precisione) – era stato incaricato di costruire il modello probabilistico con cui orientarsi nel complicatissimo dedalo di incentivi, penalità, obiettivi di risultato, tabelle di standardizzazione che avrebbe dato forma alle clausole del futuro contratto. Il tutto con la finalità di mantenere standard di servizio adeguati e salvaguardare l’interesse del governo come gestore dei soldi dei contribuenti. L’incongruenza fra la semplicità dell’operazione in questione – la verifica dei requisiti per un sussidio – e la complessità delle procedure di gestione ad essa collegate fa intuire alcuni dei (misconosciuti) pericoli che questo modello di rapporto pubblico-privato deve fronteggiare.

Nell’epoca che inaugurò in tutto il mondo la lunga fase delle privatizzazioni delle aziende pubbliche – seguita, nel Regno Unito, dalla massiccia esternalizzazione dei servizi della pubblica amministrazione – il presidente americano Ronald Reagan dava voce al diffuso sentimento antistatalista con una battuta folgorante: “The nine most terrifying words in the English language are: I’m from the government and I’m here to help” (Le nove parole più spaventose in lingua inglese sono: sono del governo e sono qui per aiutare).

Ma i frutti di quella stagione non sono privi di paradossi: in alcuni casi, proprio la diffidenza verso la capacità operativa del settore pubblico ha finito per assegnare ad esso compiti maledettamente più complicati di prima. A volte fuori dalla portata di qualsiasi soggetto, pubblico o privato che sia. Non sorprende che non raramente gli esiti siano stati tutt’altro che esaltanti. Un conto, infatti, sono le liberalizzazioni di settori come le telecomunicazioni, dove l’evoluzione tecnologica ha cambiato profondamente le caratteristiche tecniche di uno specifico processo produttivo. Ben diverso è il caso di industrie che tutt’oggi si caratterizzano per strutture dei costi e modalità di funzionamento del servizio tipiche dei cosiddetti “monopoli naturali”.

Le ferrovie inglesi sono un caso plateale di fallimento di un sistema contraddistintosi per “frammentazione, confusione e ipercomplessità”, riprendendo le parole dell’attuale ministro dei trasporti, Grant Shapps. Lo scorso 20 maggio il governo inglese ha pubblicato un libro bianco che inaugura una riforma generale del settore.

Tutto cominciò nel 1993 con il Railway Act (governo Major), che prevedeva una “separazione verticale” fra l’infrastruttura fisica della rete (i binari, i ponti, le stazioni, etc.) e il servizio viaggiatori. Lo schema ricalcava quello già inaugurato nel 1988 in Svezia, ripreso in una direttiva dell’Unione Europea (allora CEE) del 1991, e adottato successivamente in molti paesi europei. Il Regno Unito, tuttavia, si proponeva di realizzare una versione particolarmente “estrema” del modello, che prevedeva la privatizzazione della stessa infrastruttura fisica, affidata ad una società quotata al London Stock Exchange di nome Railtrack. Ora: è certamente nell’interesse collettivo mantenere bassi i costi dei servizi pagati dai cittadini (e dallo stato attraverso i soldi dei contribuenti). È forse meno nell’interesse pubblico che l’abbattimento dei costi sia l’unico criterio guida del soggetto da cui dipende la stessa sicurezza fisica dei viaggiatori. A seguito della tragedia ferroviaria di Hatfield (2000), dove morirono 4 persone e 70 rimasero ferite, la rete ferroviaria è stata ri-nazionalizzata nel 2002.

Il servizio viaggiatori fu invece affidato a diverse società, alcune delle quali – beffardamente – partecipate da governi stranieri.

Le ferrovie presentano rilevanti “economie di scala”: i costi medi tendono a ridursi considerevolmente con l’aumento del volume della produzione (misurata in passeggeri-km). Questo principio è talmente caratteristico dell’industria ferroviaria che Charles Francis Adams lo definì l’“indisputed law of railways economics” (l’indiscutibile legge dell’economia delle ferrovie). Da qui, appunto, la tendenza al formarsi di grandi concentrazioni industriali e la necessità di una loro regolamentazione pubblica.

L’idea guida del processo di privatizzazione inglese era che se la concorrenza non poteva svilupparsi “naturalmente” all’interno del mercato, si potevano comunque far competere le società per aggiudicarsi il diritto di gestire il servizio. Le origini “teoriche” di questo approccio si possono rintracciare in un celebre lavoro del 1968 dell’economista americano Harold Demsetz[1]. Quest’ultimo contestava che sussistesse un inevitabile legame fra la struttura dei costi di una certa industria e la possibilità o meno di favorirne una struttura concorrenziale: crescenti economie di scala “in no way imply that there will be one bidder only” (non implicano in alcun modo debba esserci un solo concorrente per aggiudicarsi la licenza). L’obiettivo ultimo era quello di scongiurare il controllo pubblico di importanti settori dell’economia, coerentemente con la filosofia antistatalista della cosiddetta scuola di Chigaco, cui Demsetz apparteneva.

L’assai “creativa” applicazione del suddetto schema al caso inglese ha portato alla divisione del territorio nazionale in 25 zone diverse, per ognuna delle quali si prevedeva di bandire una gara di aggiudicazione. Ma questo significava anche avere di fatto 25 servizi ferroviari diversi in un singolo paese, ognuno con i suoi sistemi di prenotazione dei biglietti, regolamenti, tariffe, personale. Ne nacque un guazzabuglio industriale di inespugnabile complessità. I contratti fra il governo e le società passeggeri erano costituiti da documenti lunghi in media un migliaio di pagine (probabilmente redatti con l’aiuto di modelli statistici costruiti da astrofici di Cambridge da entrambi i lati dalla trattativa!). Ma nemmeno questi monumenti del diritto privato sono mai riusciti a fissare efficacemente compiti e responsabilità dei singoli attori in campo.

Ancora oggi la società pubblica di gestione della rete e gli operatori privati impiegano 400 persone a tempo pieno come “train delay attributors”, con il solo compito di dirimete le controversie su chi debba essere considerato colpevole per un ritardo (passaggio fondamentale per capire su chi debbano gravare i risarcimenti). Circa la metà dei ritardi sono sottoposti alla procedura di controversia, regolata da un manuale di 199 pagine. Ha di recente raccontato il Financial Times (27 maggio 2021) che qualche anno fa ci fu una disputa riguardante il ritardo dovuto all’impatto con un pavone: se era da considerarsi un “piccolo uccello” (small bird), il ritardo si sarebbe dovuto attribuire alla società del servizio passeggeri; se era da considerarsi “un grande uccello” (big bird), la colpa sarebbe stata in capo alla società di gestione dei binari. Alla fine, il pavone fu giudicato un “grande uccello”. È il Financial Times, ma il materiale sarebbe buono anche per un’altra grande istituzione della cultura britannica: i Monty Python.

Quanto alla concorrenza per aggiudicarsi le licenze delle zone, dal 2012 circa due terzi dei contratti sono stati aggiudicati senza alcuna gara. Date le economie di scala di cui si è detto sopra, inoltre, non sorprende che la frammentazione del sistema non abbia portato quello sperato abbattimento dei costi che la privatizzazione prometteva. E se fino allo scoppio della pandemia il governo finanziava ancora circa un terzo delle entrate complessive degli operatori privati, le tariffe per gli utenti sono scresciute dal 1997 del 48% in termini reali. A fronte di un servizio universalmente giudicato scadente.

Ora il governo promette una drastica razionalizzazione, riportando sotto il controllo pubblico non solo l’infrastruttura fisica, ma la gestione del servizio e del traffico nel suo complesso. La nuova Great British Railways stabilirà fra l’altro gli orari dei treni, fisserà le tariffe dei biglietti e ne incasserà i proventi. Non è la (ri)nazionalizzazione che molti chiedevano, dato che la società pubblica continuerà ad acquistare i servizi di trasporto dagli operatori privati – con modalità in parte ancora da stabilire. Ma potrebbe rappresentare un deciso passo verso il “buon senso” e verso una chiara individuazione di ciò che gli inglesi chiamano “accountability” (ovvero: responsabilità, e più ancora, obbligo di rispondere). Il modello che si vorrebbe di fatto replicare è quello delle metropolitane di Londra, che funzionano meglio dell’attuale rete ferroviaria nazionale. Nella capitale britannica il network è interamente gestito da un ente pubblico (Trasport for London), mentre i treni sono materialmente fatti operare da una società privata (Arriva Rail).

La riforma presenta inoltre una sfida cruciale, ben più ampia delle questioni di stretta politica industriale appena richiamate. È una sfida che in ultima analisi rimanda al grande interrogativo su come sarà il mondo dopo la pandemia. Le restrizioni imposte dalla crisi sanitaria hanno imposto un repentino e radicale cambiamento al nostro stile di vita, alle nostre abitudini di consumo, lavoro, studio, relazione con gli altri. Alcuni di questi cambiamenti hanno tratti di irreversibilità, avendo accelerato tendenze già presenti da anni. Lo shopping online o l’uso del denaro digitale ne sono un esempio. Altri – come la diffusione del telelavoro – saranno profondamente influenzati dalle scelte che guideranno il ritorno alla “nuova normalità”. Si pensi all’importanza che la struttura tariffaria dei trasporti pubblici può aver nel rimodellare l’organizzazione dell’intero sistema produttivo.

Prima della pandemia il 45% dei viaggiatori sulle ferrovie britanniche erano pendolari che si spostavano per lavoro. Un abbonamento settimanale costava in genere quanto tre biglietti giornalieri. Ancor più convenienti erano gli abbonamenti mensili o annuali. Un diverso piano tariffario, incentrato per esempio sulla possibilità di acquistare carnet di biglietti a prezzo di sconto, potrebbe rendere più conveniente viaggiare solo tre o quattro giorni a settimana. La competizione fra trasporto privato individuale e trasporto pubblico si potrebbe sviluppare su nuove basi con un ripensamento degli incentivi (e delle risorse) legati a quest’ultimo. Non solo il lavoro, ma l’intera geografia urbana potrebbe uscirne rivoluzionata, con conseguenze in termini di distribuzione (e ridistribuzione) della ricchezza di portata simile a una radicale riforma fiscale, date la dimensione e la concentrazione dei patrimoni immobiliari nelle nostre metropoli del business.

Forse è in queste sfide che le migliori intelligenze di un paese dovrebbero essere impiegate. Non in dispute ornitologiche sui ritardi sulla linea Manchester-Liverpool.

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Note

[1] “Why Regulate Utilities?”, Journal of Law and Economics, 1968, vol. 11, No. 1.