Posted on

Le negoziazioni in corso sulle nuove regole fiscali europee stanno mostrando la solita contrapposizione tra il fronte “pro” e quello “contro” il “rigore fiscale”. Una contrapposizione antica, che affonda le sue radici nella stessa architettura originaria dell’unione monetaria. Con Emilio Carnevali, che insegna economia alla Northumbria University di Newcastle (Regno Unito), cerchiamo di capire meglio l’origine e le ragioni di una tale contrapposizione e, soprattuto, se è ancora oggi sensata. – di Cinzia Sciuto, da micromega.net.

Professor Carnevali, conosciamo bene le posizioni dell’Italia sul tema mentre sul “fronte del rigore” spesso si tende a semplificare e ridurre tutto a stereotipi. Allora partiamo da qui: quali sono le ragioni del “fronte del rigore”?
Le ragioni del fronte del rigore sono diverse. E possono variare da Paese a Paese, anche sulla base delle caratteristiche delle singole economie. È evidente che i piccoli Paesi del Nord Europa con un elevato livello di commercio estero hanno meno interesse a praticare politiche fiscali espansive, semplicemente perché in quel contesto sono poco efficaci. Per alcuni Paesi si possono individuare anche ragioni più propriamente politico-elettorali. I liberali del ministro delle finanze tedesco Christian Lindner, ad esempio, sono in grande difficoltà in Germania. Si tratta di un partito che ha fatto del rigore fiscale una specie di vessillo identitario. Mi pare abbastanza chiaro che Lindner stia cercando di concedere meno terreno possibile su questo punto, anche con un occhio rivolto al proprio elettorato.

Ma la posizione pro-rigore di Paesi come la Germania non nasce certo con l’arrivo al ministero delle finanze tedesco di Lindner. Quali sono le ragioni storiche profonde di queste posizioni?
In effetti queste posizioni non sono certo nuove, basti pensare che prima di Lindner c’era un certo Wolfgang Schäuble, che per altro apparteneva ad un altro partito. Prescindendo dai personalismi, e volendo esaminare in maniera più distaccata possibile le ragioni storiche di questa posizione “pro rigore” all’interno dell’eurozona, possiamo dire due cose. Primo: la nascita dell’euro ha significato l’adozione di un’unica moneta – e dunque l’istituzione di un’unica banca centrale – per Paesi con caratteristiche economiche diverse. Con una sola banca centrale si può fare un’unica politica monetaria che è comune a tutti. Quindi è evidente che questi Paesi non potevano continuare ad avere, ad esempio, tassi di inflazione così diversi come in passato. Nel momento in cui i differenziali di inflazione sono attribuiti alle diverse politiche fiscali nazionali, ecco che quest’ultime dovevano essere in qualche modo “rese omogenee”. La BCE nasceva a immagine e somiglianza della Bundesbank, la banca centrale tedesca, per ereditarne la reputazione in termini di lotta all’inflazione. Ma allora anche gli altri Paesi dell’eurozona dovevano diventare un po’ più simili alla Germania. Adesso in Italia sono tutti più o meno critici verso le regole fiscali europee troppo “austere”. Ma in passato molti hanno visto in questi “vincoli” imposti dall’esterno una opportunità, in termini di minore inflazione, tassi di interesse più bassi, maggiori investimenti e quindi maggiore crescita.
La seconda ragione è legata al debito pubblico. Quando uno Stato emette debito pubblico denominato in una moneta che non è più sotto il controllo della banca centrale nazionale, si espone a dei rischi. Anche senza regole di bilancio imposte dall’alto, e senza un bilancio federale e una banca centrale che operi come prestatore di ultima istanza, i Paesi con alto debito pubblico hanno oggettivamente pochi margini di manovra. Regole o non regole. Un alto debito pubblico, inoltre, sequestra risorse che potrebbero essere utilizzate per fini sociali e può peggiorare le diseguaglianze.

Detta così sembrerebbe che queste ragioni del fronte pro rigore siano “buone ragioni”. Cosa non va allora in questo ragionamento?
Sono ragioni coerenti con l’architettura originaria della moneta unica. Dall’anno dell’introduzione dell’euro a oggi, però, è intervenuta una serie di fatti rilevanti. I Paesi dell’eurozona hanno fatto registrare tassi di crescita anemici. L’Italia negli ultimi venti anni praticante non è cresciuta. Ma soprattutto c’è stata una devastante crisi del debito sovrano che ha esposto tutta la fragilità di una unione monetaria così strutturata. Il progetto della moneta unica è stato sul punto di andare in frantumi prima del celebre intervento di Mario Draghi dell’estate del 2012, quando il presidente della BCE ha promesso di fare whatever it takes per salvare l’euro. Quella promessa ha poi preso la forma del programma OMT (Outright Monetary Transaction), che può essere considerato il primo abbozzo del ruolo della BCE da prestatore di ultima istanza, sebbene fosse caratterizzato da discutibili condizionalità. Sono seguiti il primo Quantitative Easing (2015), il Quantitative Easing d’emergenza durante la pandemia da coronavirus (2020) e il Transmission Protection Instrument (2022).

Da un punto di vista meno “tecnico” e più “pratico”, cosa ha significato questa evoluzione della Banca centrale europea per i Paesi membri dell’eurozona?
Ha significato non essere completamente in balia dei mercati finanziari quando le cose si mettono male. Lo abbiamo visto con la pandemia. In quel caso l’Europa ha fatto tesoro della dura lezione della crisi del debito sovrano. Le regole del patto di stabilità sono state sospese e la BCE è intervenuta immediatamente per comprare i titoli del debito pubblico dei Paesi dell’eurozona. I governi hanno speso risorse molto ingenti nella sanità, ma anche per tenere in piedi il sistema produttivo e sostenere i redditi dei cittadini. Nessuno, in quel periodo terribile, si è mai preoccupato del “dove troviamo i soldi”.

Oltre agli interventi dei singoli governi nazionali, c’è stato poi l’intervento delle istituzioni europee, con il Next Generation EU. L’Italia ne è stata fra i principali beneficiari.
Sì, quella è l’altra grande novità intervenuta in questi anni. Per la prima volta abbiamo avuto un embrione di bilancio federale con risorse significative allocate dal centro ai singoli stati dell’eurozona per rispondere a una crisi. Ma soprattutto, con risorse che sono state raccolte tramite l’emissione di titoli di debito europeo. È stato un passo in avanti significativo, perché il bilancio federale rappresenterebbe una soluzione alla congenita fragilità di questa unione monetaria, per l’appunto, incompleta. Non è un caso se nella storia le unioni monetarie sono quasi sempre state fatte insieme alle unioni politiche. Il caso dell’euro, in cui la nascita di una moneta unica non è stata accompagnata da un bilancio e da un debito comune, rappresenta un caso molto raro.
Da un punto di vista puramente teorico, il fatto che una moneta unica abbia bisogno un di bilancio federale con cui gestire soprattutto gli shock asimmetrici e permettere alla politica fiscale di operare è assolutamente pacifico. Ma chiaramente sul piano politico tutto è molto più complicato. Mi sembra che siano in molti, in Europa, a voler considerare l’esperimento del Next Generation EU come una “parentesi” e non come l’avvio di un processo di riforma più strutturale.

La riforma delle regole fiscali europee non va nella direzione giusta per superare quella fragilità dell’unione monetaria di cui parlava prima?
Non saprei. Perché la riforma ancora non c’è stata, dato che ancora non si è trovato un accordo fra i governi europei e non c’è un testo ufficiale. Dato lo stallo sul lato del bilancio federale, la bontà della riforma dovrà essere giudicata sulla base dei progressi che verranno fatti nel lasciare flessibilità sufficiente ai governi nazionali per fare politiche di bilancio e di investimenti assennate. Dico assennate, nel senso che le politiche imposte dalle regole del cosiddetto Fiscal Compact – l’ultima evoluzione delle regole fiscali europee – erano del tutto destituite di razionalità economica. Una cosa che mi preoccupa molto delle proposte della Commissione circolate fin qui è che spesso faccio molta fatica a leggerle. Cioè faccio proprio fatica a capire in cosa consistano esattamente le proposte. E non credo di essere il solo. Alla faccia della semplificazione delle regole!

Mi fa un esempio concreto?
Per esempio, c’è questo concetto della “net expenditure” che – a detta della Commissione – dovrebbe diventare il principale parametro di riferimento delle nuove regole. Come ha sottolineato Giovanni Carnazza in un articolo sulla voce.info, la sua definizione non è del tutto chiara. Ma sembra prevedere il calcolo della cosiddetta componente ciclica del disavanzo che è una cosa estremamente problematica: si fanno in pratica rientrare dalla finestra tutti gli attrezzi della vecchia metodologia legati al calcolo dell’output gap, del pil potenziale, del tasso “naturale” di disoccupazione (ciò che in Europa chiamiamo NAWRU). E mi fermo qui, perché i lettori che non hanno un dottorato in economia già si saranno persi. Ma proprio questo è il punto: servirebbero regole che almeno i capi di governo sappiano comprendere, dato che dovrebbero impegnarsi a rispettarle.