L’economista Emilio Carnevali sulla manovra di Meloni: “Invece di strizzare l’occhio agli evasori, si guardi al Regno Unito per migliorare il Reddito di cittadinanza”. Di Cinzia Sciuto, 7 Dicembre 2022. Da Micromega.net –
Fra le misure più discusse della manovra economica del governo Meloni c’è la radicale messa in discussione del Reddito di cittadinanza, che viene di fatto smantellato entro il 2024. Ne parliamo con Emilio Carnevali, economista italiano che insegna alla Northumbria University di Newcastle nel Regno Unito e ha lavorato per diversi anni in un team del ministero del Lavoro inglese incaricato di fare analisi quantitative sullo Universal Credit, l’equivalente inglese del Reddito di cittadinanza.
L’attacco
al Reddito di cittadinanza viene giustificato con l’argomentazione che chi non
può lavorare ha diritto all’assistenza dello Stato ma chi è “occupabile” deve
lavorare e non “campare a spese della collettività”, magari facendo nel
frattempo anche un lavoro in nero. Cosa non funziona in questo ragionamento?
Innanzitutto, il ragionamento
allude implicitamente a una distinzione fra “chi può” e “chi non può” lavorare
basata su una sorta di capacità o condizione individuale. Chi non può lavorare,
magari perché malato, non ha “colpa” e dunque va sostenuto. Se però sei abile
al lavoro, ti devi rimboccare le maniche. Ora, se questo argomento fosse
portato alle sue logiche conseguenze non dovremmo abolire solo il reddito di
cittadinanza, ma qualsiasi altro istituto di sostegno al reddito per persone
disoccupate, dalla indennità di disoccupazione alla cassa integrazione. I
cassaintegrati, o i percettori della Naspi, sono persone perfettamente abili al
lavoro (hanno lavorato fino al giorno prima!). Perché non dovrebbero
rimboccarsi le maniche pure loro? Ma mi piace pensare che nessuno si sognerebbe
di eliminare completamente tutti gli istituti di sostegno al reddito dei
disoccupati, che per altro sono presenti nell’ordinamento di tutti gli altri
paesi europei. Il problema è che la condizione di disoccupazione – il più delle
volte – non è una scelta individuale. Se lo fosse il tasso di disoccupazione
oscillerebbe esclusivamente in base agli “umori” e alle “preferenze” collettive
della forza lavoro. Mentre è evidente a tutti che la disoccupazione sale nelle
fasi di rallentamento economico e scende nelle fasi di accelerazione. Non a
caso la ripresa economica del 2022 – seguita alla fine delle restrizioni
imposte dalla pandemia – ha visto scendere anche il numero dei percettori del
reddito di cittadinanza. Mezzogiorno compreso. Aggiungo infine che esistono
anche persone che lavorano, ma sono comunque povere: le misure di lotta alla
povertà devono intervenire proprio per contribuire a contrastare questo
fenomeno. Naturalmente devono essere parte di una strategia più complessiva,
perché il “lavoro povero” non è un problema che può essere affrontato solo con
sussidi.
Lei
conosce molto bene lo Universal Credit, l’equivalente inglese del Reddito di
cittadinanza. I due strumenti sono paragonabili?
Lo Universal Credit è stato
introdotto nel Regno Unito nel 2012 dal Welfare Reform Act, quando era Primo
Ministro il conservatore David Cameron. La nuova misura ha inglobato sei
diversi sussidi del vecchio sistema che coprivano ambiti diversi, dal sostegno
alle famiglie con figli, agli aiuti per pagare l’affitto per individui e nuclei
familiari a basso reddito. Lo Universal Credit copre una platea molto più vasta
del nostro Reddito di Cittadinanza: attualmente sono quasi 6 milioni i suoi
percettori. E di conseguenza ha costi enormemente maggiori. Quando è stato
introdotto, il nostro Reddito di Cittadinanza si è ispirato a quel modello in
numerosi aspetti, anche nei particolari più tecnici, come i massimali di
reddito e ricchezza del nucleo famigliare che permettono di avere accesso
all’assegno. Ma ci sono importanti differenze. Le più rilevanti sono due. Lo
Universal Credit è più generoso verso le famiglie con figli minorenni, mentre
il Reddito di Cittadinanza lo è verso i singoli individui. Questa differenza è
dovuta alle diverse scale di equivalenza utilizzate per calcolare il reddito disponibile
dei vari nuclei famigliari. Inoltre, lo Universal Credit contiene maggiori
incentivi al lavoro regolare: per ogni sterlina in più guadagnata lavorando, il
percettore dello Universal Credit si vede diminuito il suo sussidio di 55
centesimi e sono previsti margini più generosi per il reddito da lavoro che non
deve essere conteggiato nel reddito familiare in base al quale è calcolato il
sussidio. Con il Reddito di Cittadinanza, invece, un euro guadagnato lavorando
ti fa perdere subito 80 centesimi di sussidio e ti fa aumentare di un intero
euro il calcolo del reddito nella dichiarazione Isee in base al quale sono
calcolate anche diverse altre prestazioni del welfare italiano.
Quindi
nel Regno Unito la misura è stata introdotta da un governo conservatore, qui da
noi viene fatta passare come una misura quasi di estrema sinistra… C’è anche
nel Regno Unito una discussione analoga a quella che c’è in Italia attorno a
questo strumento?
Per quanto riguarda il
dibattito politico e pubblico intorno a queste misure, le differenze sono
molte. Volendo sintetizzare brutalmente, nel Regno Unito lo Universal Credit è
stato criticato, soprattutto dall’opposizione laburista, perché troppo poco
generoso e perché prevede condizioni di accesso troppo “stringenti”. Da noi avviene
l’esatto contrario.
Mi limito qui a riferire un solo fatto: mentre la nostra legge di bilancio
prevede un deciso ridimensionamento del Reddito di Cittadinanza in vista della
sua abrogazione nel 2024, la legge di bilancio appena approvata dal governo
guidato da Rishi Sunak, un altro conservatore, prevede l’aumento di tutti i
sussidi del welfare britannico, incluso lo Universal Credit, in linea con
l’inflazione. Ciò significa che da aprile 2023 (nel Regno Unito il mese di
Aprile segna l’inizio del cosiddetto anno fiscale) il contributo dello
Universal Credit aumenterà del 10,1%. Da noi il Reddito di Cittadinanza, a
differenza di altre misure di sostegno al reddito, non prevede alcun meccanismo
di indicizzazione all’inflazione. Significa che i percettori del Reddito di
Cittadinanza – anche quelli che il governo considera “meritevoli” di ricevere
un aiuto – subiranno un taglio in termini reali considerevole, visti gli
attuali livelli dell’inflazione in Italia. C’è infine una grossa differenza fra
i due paesi che potrei spiegare ricorrendo a un cenno, diciamo così,
autobiografico. Vivo nel Regno Unito da più di sette anni. Io e la mia compagna
lavoriamo qui, paghiamo le tasse qui. Nostra figlia ha fatto tutte le scuole
qui. Parla inglese con un accento Geordie (ovvero di Newcastle), tanto che a
volte faccio perfino fatica a capirla! Nessuno si sognerebbe di dire che la mia
famiglia non dovrebbe avere accesso allo Universal Credit, qualora ne avesse
bisogno. In Italia, un immigrato nelle mie stesse condizioni non avrebbe
diritto al Reddito di Cittadinanza, dato che servono 10 anni di residenza.
Usciamo
dunque dalle sterili polemiche italiane. Anche dal breve confronto con lo
Universal Credit che lei ha fatto si può dire che qualche aggiustamento al
nostro Reddito di cittadinanza sarebbe necessario. Secondo lei è così? E se sì
in cosa va cambiato?
Viviamo – per fortuna – in
democrazie dell’alternanza. Le buone riforme sono quelle che sopravvivono ai
cambi di maggioranza e di governo: sopravvivono o perché si è costruito un
ampio consenso politico attorno ad esse, oppure perché sono divenute abbastanza
popolari fra i cittadini da far sì che anche governi con “idee diverse”
diventino riluttanti a metterci mano. In questo momento il reddito di
cittadinanza è un bersaglio facile. I sondaggi ci dicono che la maggioranza
degli italiani non ha un giudizio favorevole del Reddito di Cittadinanza.
Potrei aggiungere un “purtroppo” a questa mia frase, dato che personalmente
penso che, con tutti i suoi difetti, sia stato uno strumento importante per la
lotta alla povertà in Italia. Ma questo non cambierebbe le cose. Per tutti
questi motivi credo sia giusto discutere di miglioramenti da apportare al
Reddito di cittadinanza. Da questo punto di vista la Legge di Bilancio contiene
anche una indicazione molto sensata, ovvero che il reddito proveniente da
contratti di lavoro stagionale o intermittente, che sono quelli ad esempio
tipici del settore turistico o dell’agricoltura, non concorra a determinare – e
quindi a far diminuire – il beneficio economico del sussidio. Almeno fino alla
soglia dei 3mila euro. È un elemento di maggiore incentivo al lavoro regolare
che va nella direzione giusta. Questa è la stessa filosofia che aveva ispirato
alcune delle proposte di riforma avanzate dal Comitato scientifico per la
valutazione del Reddito di cittadinanza, istituito dall’allora ministro del
Lavoro Andrea Orlando e presieduto dalla professoressa Chiara Saraceno. Il rapporto di quel comitato
affrontava proprio alcune delle criticità che sono emerse anche nella nostra
conversazione sul paragone con il modello inglese: ovvero la penalizzazione dei
nuclei famigliari numerosi e il disincentivo al lavoro regolare. Il comitato,
ad esempio, proponeva di ridurre il sussidio solo di 60 centesimi – e non di 80
– per ogni euro in più di reddito da lavoro. È una percentuale molto vicina al
55% inglese. È una proposta semplice e pragmatica. Una proposta
intelligente. Io dico: ripartiamo da lì.
Fra le critiche principali al Reddito di cittadinanza c’è l’argomento che
esso favorirebbe il lavoro nero. È una critica fondata?
Credo che le critiche al Reddito di
cittadinanza vadano prese molto sul serio. Non solo quelle che io personalmente
considero giuste e ragionevoli, ma anche quelle verso le quali mi sento di
dissentire decisamente, come per esempio l’argomento ricordato nella
prima domanda sui percettori del reddito di cittadinanza che non dovrebbero
“campare a spese della collettività”. Quando si mette in campo un programma di
sostegno alle fasce più povere della popolazione – nel Regno Unito o in Italia,
come negli Stati Uniti, in Brasile o in Nigeria – è fondamentale tenere conto
del cosiddetto “risentimento dei non poveri”, compresi quei cittadini che
lavorano tanto, fanno grandi sacrifici per le loro famiglie, e magari sono
appena sopra la soglia che li qualificherebbe per avere accesso a un sostegno
pubblico. Sono manifestazioni di disagio “fisiologiche”, che non possono essere
liquidate con superficialità. Pensiamo a quei piccoli centri di cui è fatta
l’Italia, a quei paesi dove tutti conoscono tutti. Pensiamo a una famiglia dove
si lavora tanto, con lavori regolari, e, ciò nonostante, si riesce a fatica ad
arrivare alla fine del mese. Magari questa famiglia ha un vicino che lavora in
nero, se la passa relativamente meglio, e percepisce anche il Reddito di
cittadinanza. È comprensibile che si inneschi una reazione di rigetto, di
rancore. Una reazione in ultima analisi motivata dalla percezione di
un’ingiustizia subita. In questo caso, però, il problema non è la misura di
contrasto alla povertà. Misure simili sono previste nell’ordinamento di tutti i
paesi con un welfare degno di questo nome. Miglioramenti come quelli che
proponevo prima, o anche quello contenuto nella Legge di Bilancio sui lavori
stagionali, contribuirebbero a disincentivare il ricorso al lavoro nero.
Più in generale, il problema dell’Italia è la
rilevanza, questa sì senza quasi paragoni in Europa, del lavoro nero e della
economia irregolare. Ma allora chi vuole porre fine a queste situazioni di
“ingiustizia” dovrebbe mettere nel mirino il lavoro nero e l’economia
irregolare. Dovrebbe mostrarsi inflessibile nei confronti di queste piaghe
sociali, che sono anche alla base di molti problemi di competitività
dell’economia italiana. Il nanismo delle nostre aziende, la scarsa innovazione
e la stagnante produttività di tanti settori della nostra economia, non si
spiegano se non si tiene conto di questa patologia a monte.
Purtroppo, bisogna dire che diverse misure
contenute nella Legge di Bilancio – dall’aumento della soglia per l’uso del
contante, al venir meno dell’obbligo del Pos, alla “rottamazione” delle
cartelle esattoriali – vanno in direzione completamente contraria: strizzano
l’occhio all’evasione per consolidare un facile consenso.