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di Giovanni Carnazza ed Emilio Carnevali

La riforma del Patto di Stabilità e Crescita era stata invocata per semplificare il quadro delle regole fiscali europee e rimuovere i difetti di “prociclicità” del vecchio impianto. L’accordo trovato a dicembre rischia di fallire entrambi gli obiettivi. – da lavoce.info (una versione più estesa di questo articolo è stata pubblicata sul Menabò di Etica ed Economia).

Un’Europa che non cresce

Dall’anno dell’adozione della moneta unica, la zona euro è cresciuta a un ritmo più lento sia degli Stati Uniti che dei paesi europei fuori dall’euro (figura 1). La crisi del debito sovrano, nel 2010-2011, ha esposto drammaticamente le fragilità di una unione monetaria priva di un bilancio comune. D’altro canto, la pandemia da Covid-19 ha offerto l’opportunità di una risposta coordinata, efficace e solidale sul piano continentale. Tutto ciò sembrava suggerire la concreta possibilità di una rimessa in discussione del dogma del rigore di bilancio che ha caratterizzato la zona euro fin dalla sua nascita. Il risultato dell’accordo del 20 dicembre 2023 ha invece deluso chi sperava in un radicale cambiamento di rotta.

Figura 1 – La crescita del Pil reale: Eurozona e Stati Uniti a confronto

Nota: 1999=100, prezzi costanti al 2015. L’aggregato Eurozona include gli 11 paesi che per primi adottarono la moneta unica (Austria, Belgio, Finlandia, Francia, Germania, Irlanda, Italia, Lussemburgo, Olanda, Portogallo e Spagna) e la Grecia, che rientrò nei parametri richiesti nel 2000 e fu ammessa nel 2001. Fonte: elaborazioni proprie su dati Banca Mondiale.

Nuove regole, vecchi parametri

Con l’accordo di dicembre rimangono innanzitutto invariati i due principali indicatori-soglia su cui è costruita l’intera impalcatura delle regole fiscali europee: il 3 per cento del rapporto deficit-Pil e il 60 per cento del rapporto debito-Pil.

Si tratta di numeri che risalgono allo storico Trattato di Maastricht del 1992. A quel tempo, il livello medio del rapporto debito-Pil dei paesi candidati a entrare nella zona euro era proprio del 60 per cento. Il 3 per cento può essere ricavato dalla formula che indica quale livello del rapporto deficit-Pil permetta di stabilizzare al 60 per cento il debito pubblico se la crescita nominale del Pil risulta pari a poco più del 5 per cento: d=g*b dove g è il tasso di crescita nominale del Pil, b è il rapporto debito-Pil e d è il rapporto deficit-Pil. Facendo le opportune sostituzioni, si ottiene proprio il valore del 3 per cento.

Oggi il debito dell’Eurozona è, in media, pari a circa il 90 per cento del Pil. La crescita nominale media dei 20 paesi appartenenti all’unione monetaria è stata di poco inferiore al 3 per cento dal 2002. In Italia il debito è al 140 per cento del Pil, mentre la crescita nominale media è stata vicina al 2 per cento. In entrambi i casi, la “regola del deficit” ci restituisce valori di poco inferiori al 3 per cento (nel caso in cui si volesse stabilizzare il debito al valore attuale). E fin qui sembrerebbe che la riproposizione di questi parametri non confligga più di tanto con il nuovo quadro macroeconomico in cui vengono calati. Vediamo perché non è così.

Uno, nessuno e centomila indicatori

Gli stati che superano i valori soglia devono concordare con la Commissione europea un piano pluriennale di aggiustamento di 4 o 5 anni (estendibile di 3 anni in presenza di riforme strutturali) incentrati su un “nuovo” indicatore: la net expenditure (o spesa netta), che è definita come “la spesa al netto degli interessi, delle misure discrezionali sulle entrate, della spesa per la disoccupazione ciclica”.

La Commissione dovrebbe usare solo l’evoluzione di questo indicatore per verificare l’effettiva attuazione del piano. Ma il proposito, più che giustificato da un punto di vista teorico, porta con sé due problemi fondamentali. Innanzitutto, il calcolo della spesa netta sembra poggiare, sebbene non sia dichiarato esplicitamente, sul problematico concetto di output gap (la stima della componente strutturale e ciclica presuppone sempre la necessità di una misura che riassuma l’ampiezza delle fluttuazioni cicliche). Inoltre, non sembra esistere una sostanziale differenza tra il nuovo indicatore e il vecchio concetto di saldo strutturale (per la dimostrazione formale dell’uguaglianza vedi qui). Data la sovrapposizione tra i due concetti e la necessità di ricorrere nuovamente a una stima dell’output gap, è evidente allora il rischio che si ripropongano le tendenze a politiche fiscali “pro-cicliche” che caratterizzavano la metodologia incorporata nelle vecchie regole. L’esclusione della spesa per interessi dal calcolo del nuovo indicatore non ha poi implicazioni di rilievo: poiché gli interessi alimentano per definizione la crescita del rapporto debito-Pil, la net expenditure – il cui obiettivo primario è incidere sull’evoluzione di quest’ultimo – deve necessariamente tenerli in considerazione. La tendenza all’incremento del debito determinata dalla spesa per interessi deve allora essere più che compensata da un’evoluzione virtuosa del nuovo indicatore. Escludere o includere formalmente la spesa per interessi dal computo della spesa netta appare irrilevante. Non si tratta certo di una “vittoria politica” per paesi che pagano elevati interessi come l’Italia.

L’Italia e le nuove regole

Il caso dell’Italia è da questo punto di vista illuminante. Fino allo scoppio della crisi sanitaria, contrariamente a quanto generalmente ritenuto, siamo stati uno dei paesi europei più virtuosi in tema di gestione delle finanze pubbliche. Al netto degli ultimi anni, l’Italia ha fatto quasi sempre registrare un avanzo primario (figura 2a – Italia). Il resto dell’Eurozona è stato caratterizzato da saldi primari di finanza pubblica decisamente peggiori; la sostanziale equivalenza tra disavanzo complessivo italiano e quello medio europeo è da attribuirsi fondamentalmente all’elevata spesa per interessi che l’Italia ha dovuto (e deve) sostenere per l’enorme ammontare in valore assoluto del debito (2.844 miliardi di euro nel terzo trimestre del 2023, secondo i dati di Banca d’Italia).

Figura 2 – I conti pubblici e l’andamento del rapporto debito/Pil: Italia ed Eurozona a confronto

(a) Saldo di bilancio

(b) Variazione del rapport debito/Pil

Nota: l’aggregato Eurozona include gli 11 paesi che per primi adottarono la moneta unica (Austria, Belgio, Finlandia, Francia, Germania, Irlanda, Italia, Lussemburgo, Olanda, Portogallo e Spagna) e la Grecia, che rientrò nei parametri richiesti nel 2000 e fu ammessa nel 2001. Fonteelaborazioni proprie su dati Eurostat

Ma perché l’Italia ha dovuto perseguire politiche di bilancio così restrittive? Per conformarsi al complesso meccanismo delle regole fiscali europee con l’obiettivo – in teoria – di ridurre ogni anno il rapporto debito-Pil. Eppure, queste politiche hanno sempre contribuito all’aumento del rapporto, in Italia così come anche nell’Eurozona (figura 2b). La figura 2b scompone, da un punto di vista quantitativo, la variazione del rapporto debito-Pil intercorsa ogni anno (istogramma blu) tra il contributo del numeratore (politiche di bilancio) e il contributo del denominatore (crescita nominale). Data questa evidenza empirica, varrebbe la pena domandarsi se, in generale, una politica di riduzione del debito debba affidarsi esclusivamente a interventi di carattere “ragionieristico” sulle finanze pubbliche o non debba basarsi, al contrario, su politiche (anche fiscali) che sostengano la crescita economica. Il punto è direttamente connesso al delicato tema dei moltiplicatori fiscali, che catturano l’impatto futuro di una manovra fiscale sul Pil. Ad esempio, i programmi di consolidamento fiscale imposti in passato al governo greco si basavano sulla stima di un moltiplicatore intorno allo 0,5 e, quindi, sull’idea che le manovre di austerity non avrebbero danneggiato in modo sostanziale l’economia greca. Il crollo verticale del Pil poi verificatosi non fu dovuto ad altro che alla sottostima del moltiplicatore, in realtà ben superiore all’unità.

A un approccio di tipo “ragionieristico” sembrano ispirarsi le clausole del nuovo quadro normativo che si affiancano al cosiddetto indicatore “unico”.

1) la procedura per debito eccessivo scatta quando sussistono tre condizioni: a) il rapporto debito Pil supera la soglia 60 per cento; b) il bilancio statale non è in pareggio o in avanzo; c) si verifica una deviazione dalla traiettoria della net expenditure concordata con la Commissione di 0,3 per cento del Pil su base annuale, o dello 0,6 per cento su più anni;

2) la traiettoria della net expenditure deve garantire la diminuzione media del rapporto del debito Pil dell’1 per cento all’anno per paesi con debito oltre il 90 per cento (0,5 per cento per paesi con debito fra il 60 e il 90 per cento);

3) i paesi con un deficit oltre il 3 per cento devono impegnarsi a ridurre il deficit strutturale dello 0,5 per cento annuo;

4) il piano pluriennale deve puntare a un rapporto deficit-Pil in termini strutturali dell’1,5 per cento. Gli aggiustamenti annuali richiesti per avvicinarsi all’obiettivo (una volta fuori dalla procedura per deficit eccessivo) devono prevedere una diminuzione dello 0,4 per cento del deficit strutturale primario per piani di aggiustamento “standard” (su 4 o 5 anni), dello 0,25 per cento nel caso di estensione su 7 anni.

Il punto 2 (debt sustainability safeguard) e il punto 4 (deficit resilience safeguard) sono stati di fatto imposti dal ministro delle Finanze tedesco. Un governo italiano autorevole e credibile avrebbe almeno potuto denunciare l’incoerenza dei dispositivi rispetto allo schema dell’“indicatore unico”. La politica economica attuata finora dal governo Meloni (contrasto alle regole europee pro-concorrenza, abbassamento della guardia sull’evasione fiscale, mance fiscali a specifici segmenti del proprio elettorato, leggi di bilancio fondate su “rinnovi annuali” di partite da decine di miliardi) non ha probabilmente contribuito a rafforzarne autorevolezza e credibilità agli occhi dei partner europei. Ci si è così accontentati di qualche “sconto” sull’applicazione delle nuove regole per gli anni 2025, 2026, 2027.