Inflazione, tassi in salita e fallimenti bancari: la tempesta perfetta che minaccia l’economia mondiale. Intervista a Emilio Carnevali. Di Rita Viola, 27 Dicembre 2022. Da micromega.net –
Quando nei giorni scorsi abbiamo sentito la notizia del fallimento della banca americana Silicon Valley Bank la memoria di tutti noi è andata immediatamente al 2008 e al fallimento della Lehman Brothers, evento che innescò la grave crisi economico-finanziaria degli anni successivi. Per capire meglio cosa sta accadendo e cosa dobbiamo aspettarci per il futuro ne abbiamo parlato con Emilio Carnevali, economista della Northumbria University di Newcastle Upon Tyne.
Partiamo
dalla ricostruzione dei fatti: cos’è successo alla Silicon Valley Bank?
Volendo cominciare dalla fine,
la banca ha subìto quello che in gergo si chiama un bank run, una
corsa agli sportelli. Nella sola giornata di giovedì 8 marzo i suoi clienti hanno
tentato di portare via dalla banca qualcosa come 42 miliardi di dollari, pari a
circa un quarto dei depositi totali. La banca si è trovata nell’impossibilità
di trovare la liquidità necessaria a fronteggiare queste richieste ed è stata
dichiarata insolvente dalla Federal Deposit Insurance Corporation,
l’autorità Usa incaricata di garantire l’assicurazione sui deposi bancari.
Perché
si è verificata questa corsa agli sportelli?
La SVB aveva problemi sia dal
lato delle passività (in parole semplici, i debiti della banca, fra cui sono da
includersi i depositi della clientela) sia dal lato degli attivi (i crediti che
la banca può vantare verso soggetti terzi). Per quanto concerne le passività, i
suoi clienti erano concentrati soprattutto fra le start-up e i fondi di venture
capital del settore tecnologico. Inoltre, negli Stati Uniti il limite
per l’assicurazione federale dei depositi è di 250.000 dollari. Secondo alcune
stime alla SVB la quota dei depositi non assicurati (perché sopra questa
soglia) superava il 90%. Il grosso afflusso di investimenti e capitali
verso le start-up tecnologiche che si è verificato negli anni recenti ha
gonfiato i depositi presso la SVB e ha dunque messo a disposizione della banca
una enorme liquidità. Una parte consistente di questa liquidità – e qui veniamo
al lato degli attivi – è stata investita in obbligazioni e titoli governativi a
reddito fisso e contabilizzata in bilancio come “held-to-maturity”. Significa
che anche se il loro prezzo scendeva a causa dell’incremento dei tassi varato
dalle banche centrali nell’ultimo anno, il loro valore ai fini del bilancio
restava quello nominale. La cosa può funzionare perfettamente, a meno che non
si è costretti a vendere i titoli prima della loro scadenza, o a utilizzarli
come collaterali per ricevere prestiti da soggetti terzi, compresa la banca
centrale.
È
questo che ha innescato la reazione a catena che ha portato al fallimento?
Sì. Ma c’è da tenere conto di
un altro elemento importante di contesto. Negli ultimi tempi le cose per l’intero
settore tecnologico non sono andate benissimo. Solo per fare qualche esempio
fra i nomi più noti (anche se non coinvolti nella vicenda SVB), dall’inizio
dell’anno Meta, la proprietaria di Facebook, ha licenziato 10mila persone,
Alphabet, la proprietaria di Google, 12mila, Amazon 18mila, Microsoft 10mila.
La situazione non è diversa per le aziende più piccole e le start-up. Quando i
depositi alla SVB sono iniziati a diminuire, la banca ha dovuto cominciare a
vendere una parte degli attivi di un portafogli che si era svalutato di circa
15 miliardi. Dopo aver registrato una iniziale perdita di 1,8 miliardi di
dollari, ha cercato – senza riuscirci – di raccogliere liquidità sul mercato
con l’emissione di nuove azioni. Ma ormai il panico si era diffuso presso i
correntisti. Del resto, come detto prima, si trattava di depositi in gran parte
non coperti dall’assicurazione federale. Con una metafora possiamo dire che si
è diffusa la voce che la barca stava per affondare: una parte dei passeggeri,
sapendo che non c’erano scialuppe di salvataggio, ha provato a muoversi per
prima e a saltare su un’altra imbarcazione. Quando molti alti passeggeri hanno
provato a fare lo stesso, la barca si è sbilanciata ed è affondata molto
velocemente.
Dalle
notizie che giungono, si tratta di una banca di medie dimensioni. Perché il suo
fallimento ha avuto una tale eco?
La SVB era considerata una
banca “regionale”, di medie dimensioni. Ci sono altre banche con
caratteristiche simili che possono presentare fattori di rischio analoghi, sia
dal lato delle attività, con asset fortemente svalutati a causa del recente
incremento di tassi, sia dal lato delle passività, con una clientela poco
diversificata e una consistente quota di depositi sopra la soglia coperta
dall’assicurazione federale. Quando poi parliamo di fenomeni come i bank
run, entriamo in un territorio dove non tutti gli elementi possono essere
soppesati alla luce di considerazioni “razionali”. In certe condizioni possono
subire bank run anche soggetti con fondamentali economici non
compromessi: il loro stato di crisi diventa una profezia che si autoavvera.
Oggi poi, con i conti correnti online e i social media, i bank
run sono ancora più facili. In ogni caso la SVB e la Signature Bank –
l’altra banca fallita in questi giorni – sono state considerate
dall’amministrazione Biden sufficientemente grandi per invocare l’eccezione da
“rischio sistemico” e garantire anche i depositi sopra i 250.000 dollari che in
teoria non dovevano essere garantiti. Questo significa che azionisti e
obbligazionisti delle due banche perderanno i loro soldi, ma non i correntisti.
Sembrerebbe
dunque una questione “locale”, eppure i suoi effetti si sono visti anche in
Europa, fino alla vicenda Credit Suisse.
Per quanto concerne l’Europa,
qui la regolamentazione del sistema bancario è più severa che negli Usa.
Tuttavia, le notizie provenienti dagli Stati Uniti si sono sommate e fattori di
preoccupazione “endogeni”, o più prossimi, come la situazione di Credit Suisse,
la seconda banca svizzera. Credit Suisse ha alle spalle anni di scandali e
conti in rosso; quindi, i suoi problemi risalgono a ben prima delle recenti
turbolenze sui mercati. Le ultime vicende, e i timori di contagio dagli Usa,
hanno però accelerato la sua crisi. È notizia di queste ore che la banca verrà
acquistata da Ubs, la prima banca svizzera e sua storica rivale.
In
molti evocano lo spettro del fallimento della Lehman Brothers, da cui partì poi
la grave crisi economica del 2008-2009: il paragone è calzante?
Ci sono diverse, importanti
differenze rispetto ad allora. La prima è che oggi forse, e sottolineo forse, riusciamo
a capire un pochino meglio cosa sta succedendo di quanto non riuscissimo a fare
nel mezzo della tempesta del 2007-2008. La problematicità dei bilanci delle banche
coinvolte non è legata a particolari innovazioni finanziarie. La crisi del 2008
è partita dal settore immobiliare. Quando molti mutuatari hanno cominciato ad
avere difficoltà con la restituzione dei loro prestiti e il prezzo delle case è
cominciato a scendere, è diventato molto difficile capire il valore dei
prodotti finanziari che erano stati creati con la cartolarizzazione di questi
mutui (spesso ad alto rischio). È per questo motivo che si dovette abbandonare
il piano di soccorso predisposto dall’amministrazione Bush, che consisteva
nell’acquisto dei titoli “tossici” direttamente dalle banche. L’amministrazione
Obama ha dovuto procedere ricapitalizzando direttamente i soggetti più esposti.
Un’altra differenza è che il crack di Lehman Brothers fu un fallimento per così
dire “disordinato”. Si volle in qualche modo dare una “lezione” al mercato.
Oggi, nel caso delle due banche Usa dichiarate insolventi, non solo i depositi
sono stati interamente garantiti dal governo federale, ma la Federal Reserve ha
aperto una linea di credito eccezionale per tutte le altre banche a cui sarà
possibile accedere con collaterali che saranno valutati “alla pari”. Ciò
significa che, per esempio, i titoli di Stato il cui prezzo è calato
nell’ultimo anno a causa dell’incremento dei tassi saranno valutati al loro
valore nominale. Questo, in teoria, dovrebbe permettere a istituti di credito
con problemi simili a quelli di SVB sul lato degli attivi di gestire meglio
eventuali crisi di liquidità. C’è infine da notare che lo stesso sistema
bancario sta cercando di coordinarsi per arginare la crisi. Nei giorni scorsi
un consorzio di banche private, fra cui JPMorgan Chase, Bank of America e
Goldman Sachs ha messo su un piano di aiuti da 30 miliardi per un’altra banca
regionale in sofferenza, la Fist Republic Bank. Anche se per il momento
l’intervento non è bastato a fermare il crollo del suo titolo in borsa, che
venerdì pomeriggio ha perso circa un quarto del valore.
Una differenza che invece non depone a vantaggio della situazione attuale è la
situazione dell’alta inflazione e del conseguente aumento dei tassi deciso
dalle banche centrali per cercare di riavvicinarsi all’obiettivo del 2%.
Vedremo in che modo i banchieri centrali vorranno rivedere la loro strategia
alla luce degli eventi recenti. Giovedì scorso Christine Lagarde ha deciso di
tirare dritto con il già annunciato aumento di 50 punti base. Ma ha anche
lasciato cadere il riferimento ad altri rialzi nell’immediato futuro. Nei
prossimi giorni sono attese le decisioni di Fed e Banca d’Inghilterra.
Dopo il fallimento della Lehman Brothers si disse che il mercato finanziario andava regolato: cosa è stato fatto e perché continuano a crearsi situazioni di questo genere? Gli interventi non sono stati sufficienti?
Dopo la crisi del 2007-2008 si è fatto molto per regolare meglio il settore bancario. Purtroppo, in alcuni casi, dopo aver fatto, si è anche disfatto. Negli Usa una tappa fondamentale della ri-regolamentazione post-crisi finanziaria è stata l’approvazione del Dodd-Frank Act nel 2010. Erano gli anni dell’amministrazione Obama, ma è significativo che la legge sia passata con il voto determinante di tre senatori repubblicani. Dopodiché, con la ripresa economica sono ricominciate anche le pressioni per allentare le regole. Si tratta di un ciclo che è stato descritto molto efficacemente tanti anni fa dall’economista amaricano Hyman Minsky: le crisi sono spesso preparate dall’euforia, l’ottimismo e l’estrema propensione al rischio che caratterizzano i precedenti periodi di espansione.
Nel 2018 l’amministrazione Trump ha approvato una legge che, fra le altre cose, ha elevato da 50 a 250 miliardi di dollari la soglia oltre la quale le istituzioni finanziarie sono classificate come “systemically important”. Uscire da quella categoria, come è accaduto alla Silicon Valley Bank, significa essere sottoposti a regole molto meno stringenti sia rispetto ai requisiti di capitale – che misurano quanto si è in grado di assorbire perdite di esercizio – sia rispetto agli indici di liquidità – che misurano quanto si è in grado di fronteggiare eventuali fughe di investitori a breve termine. Ora negli Usa un mucchio di gente sta trasferendo i propri soldi nelle banche più grandi, perché giudicate più sicure. È un bel paradosso che queste regole, approvate con il dichiarato intento di favorire le banche di dimensioni minori, produrranno una ancor maggiore concentrazione nel settore bancario.