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Approfondimento sulle presidenziali Usa con Emilio Carnevali, docente di macroeconomia della Northumbria University. – di Fabio Bartoli, da www.micromega.net.

Sul piano economico per cosa si è contraddistinta l’uscente amministrazione Biden? 

L’amministrazione Biden si è insediata nel Gennaio del 2021, nel mezzo della pandemia da Covid 19. E da un certo punto di vista la risposta americana all’emergenza è stata simile a ciò che abbiamo sperimentato in Europa: si sono spesi un mucchio di soldi per sostenere i bilanci delle imprese e i redditi delle famiglie. Le differenze con l’Europa sono forse due. La prima è nella scala: Biden, e Trump prima di lui, hanno impiegato una quantità molto maggiore di risorse (in proporzione al Prodotto interno lordo); la seconda rimanda a una divergenza più strutturale fra i due modelli sociali. Qui in Italia, ad esempio, i posti di lavoro sono stati tutelati principalmente tramite un istituto che già esisteva, la cassa integrazione. Lo stesso è avvenuto in Germania. Perfino nel Regno Unito si è ricorsi a uno schema simile quando è scoppiata la pandemia (il Coronavirus Job Retention Scheme). Negli Usa, invece, si è puntato su assegni diretti agli individui e un massiccio incremento dei sussidi di disoccupazione, sia in termini della loro durata che del loro ammontare in denaro (con bonus federali extra rispetto agli assegni di base che hanno raggiunto i 600 dollari settimanali nella fase più acuta della crisi).

E una volta passata l’emergenza?

La misura più significativa della presidenza Biden è stata senz’altro l’Inflation Reduction Act, approvato nell’agosto del 2022, il cui nome però è un po’ fuorviante. Di fronte all’impennata dell’inflazione che si era registrata in quei mesi, forse gli spin doctor della Casa Bianca hanno cercato di segnalare che quella era la priorità del governo. Di fatto, si tratta di un grande piano di politica industriale incentrato sulla transizione ecologica e digitale. Pochi giorni prima dell’Inflation Reduction Act era stato per altro approvato il Chips and Science Act. Le risorse federali che a regime dovrebbero essere mobilitate dai due pacchetti superano il trilione di dollari. Una parte importante sarà impiegata in sussidi, prestiti e crediti fiscali per imprese e consumatori, oltre che in investimenti pubblici diretti. Secondo l’amministrazione queste politiche dovrebbero garantire una riduzione delle emissioni di gas serra del 40% sotto i livelli del 2005 entro il 2030. Ma chiaramente c’è anche l’obiettivo di promuovere la reindustrializzazione di molte aree degli Stati Uniti che negli ultimi decenni si erano deindustrializzate.

Emergenza sanitaria a parte, se dovesse vincere Harris la sua amministrazione si muoverebbe in continuità con quella Biden?

Biden è un presidente molto impopolare. E questo a dispetto di una ripresa economia post-pandemia robusta – più robusta che in Europa. Hanno contributo alla sua impopolarità diversi fattori, primo fra tutti il suo evidente declino fisico. Sul piano economico è stata invece l’inflazione a pesare di più. È vero che adesso l’inflazione è scesa, ma l’indice dei prezzi resta comunque oltre il 20% più alto di prima del marzo 2020.
È quindi normale che Kamala Harris cerchi di enfatizzare i caratteri di novità della sua candidatura. Passando dal marketing elettorale alla sostanza delle cose, però, vedo essenzialmente tre motivi che spingono in favore di una certa continuità. Il primo, e più ovvio, è che Harris è subentrata “in corsa”, per così dire. Eredita la campagna di Biden, la sua macchina organizzativa, il suo personale, e – si badi bene – i suoi finanziatori. Secondo: misure come quelle contenute nell’Inflation Reduction Act sono state studiate su un arco temporale ampio, fino ai primi anni del prossimo decennio. Hanno appena cominciato a dispiegare i propri effetti. Terzo: il ritorno dell’intervento pubblico, delle politiche industriali, della promozione di certi settori considerati strategici, oltre che naturalmente l’esigenza di affrontare il cambiamento climatico, sono orientamenti che si sono consolidati negli ultimi anni, non solo negli Usa. Basta leggere il rapporto Draghi sulla competitività in Europa.

A proposito di politiche industriali, gli Stati della Rust Belt sembrano preannunciarsi decisivi per il conferimento della vittoria. In cosa differiscono i programmi di Harris e Trump per il rilancio di quest’area e dell’industria americana in generale? 

Trump ha promesso di abrogare l’Inflation Reducution Act. Che poi si impegni davvero a questo scopo – e abbia i numeri in Congresso per farlo – è un altro discorso. Nella campagna elettorale del 2016 aveva promesso di abrogare la riforma sanitaria di Obama, che è ancora lì.
Altre proposte sono così radicali che è difficile capire quanto siano trovate propagandistiche o punti di un vero programma economico. Trump ha dichiarato di voler portare al 10% i dazi su tutti i beni importati – ma più recentemente ha parlato del 20% –, al 60% su tutti i beni cinesi e al 100% su quelli provenienti da paesi che hanno intenzione di diminuire la loro dipendenza dal dollaro. Le entrate di queste tariffe dovrebbero finanziare enormi tagli di tasse. A cominciare dalla proroga dei tagli alle tasse sul reddito – di cui hanno beneficiato soprattutto i contribuenti più ricchi –, sull’eredità e sui profitti di impresa approvati nel 2017 e in scadenza nel 2025. Più in generale, Trump ha più volte ventilato l’idea di sostituire le entrate federali provenienti delle imposte sul reddito con quelle provenienti dai dazi doganali. Sarebbe più o meno un ritorno al sistema fiscale che era in vigore nei paesi occidentali nel diciannovesimo secolo. Non so se sia superfluo sottolineare che il sistema di due secoli fa fosse estremamente regressivo.

E invece il programma di Harris?

Come dicevo, su alcune grandi questioni Harris dovrebbe muoversi nel segno di una certa continuità. Fino a questo momento la sua campagna ha cercato di porre l’accento una serie di misure, per così dire, “sociali”, come ad esempio l’aumento del child tax credit (una cosa simile al nostro assegno unico per i figli), che nel primo anno di vita del bambino dovrebbe essere portato a 6000 dollari l’anno, dai 2000 attuali. L’incremento provvisorio del child tax credit durante la pandemia aveva portato ad una riduzione di quasi il 50% della povertà infantile negli Stati Uniti.
Poi chiaramente ci sono una serie di proposte che sono studiate su misura per i singoli swing States che decideranno le elezioni. Il fatto che Harris si sia accodata a Trump nella discutibile proposta di defiscalizzare le mance non si comprenderebbe senza considerare l’importanza che il settore dei servizi e la hospitality industry hanno in Nevada, lo Stato di Las Vegas e uno dei terreni più contesi nel voto di novembre. Anche la retromarcia sul fracking si spiega in questo modo. Da candidata alle primarie democratiche, nel 2020, Harris si era dichiarata a favore del bando di questa tecnica di estrazione del gas naturale per ragioni ambientali. Ma si tratta di una industria che è evidentemente troppo importante in Pennsylvania, altro Stato in bilico.
Comunque, anche per Harris vale il discorso sullo scarto inevitabile fra le promesse e la realtà politica dopo il voto. È probabile, infatti, che a novembre il Senato passi sotto il controllo dei Repubblicani. Anche se i Democratici dovessero ottenere la maggioranza alla Camera dei rappresentanti, sarebbe molto difficile per Harris far avanzare la sua agenda.

Rispetto alla politica commerciale, qual è la posizione dei democratici?

Anche l’amministrazione Biden ha approvato una serie di misure protezioniste. Diciamo che la differenza con l’approccio di Trump sta negli obiettivi a cui queste specifiche politiche mirano. Da una parte c’è il tentativo di proteggere quelle “industrie del futuro” (pannelli solari, auto elettriche, semiconduttori, ecc.) che la nuova politica industriale sta cercando di rinforzare – o di far nascere praticamente da zero. Dall’altra c’è la volontà di diminuire la dipendenza dalla Cina e, anzi, limitare la capacità di iniziativa cinese in alcuni settori strategici, soprattutto in presenza di dirette applicazioni militari. È stato Trump a inaugurare una politica di aperta ostilità nei confronti della Cina. Su questo si potrebbe constatare una certa continuità fra la sua amministrazione, quella di Biden, e probabilmente anche una eventuale amministrazione Harris. Ma l’approccio America First di Trump si distingue da quello dei democratici per non fare troppa differenza, in ultima analisi, fra competitors e alleati. Qui però entriamo in un terreno che forse ha più a che fare con la politica estera che con la politica economica.
Certamente quella spinta a una sempre maggiore integrazione dei mercati internazionali che aveva caratterizzato l’inizio del nuovo millennio non sembra più fra noi, chiunque venga eletto alla Casa Bianca.

A proposito di scenari internazionali, quali possono essere le implicazioni dei piani di politica economica dei due candidati per il resto del mondo?

Abbiamo detto delle politiche commerciali. E naturalmente ciò che avviene negli Stati Uniti ha grande importanza per l’“esempio” che proietta all’estero. Nel Paese in cui vivo, il Regno Unito, il Partito laburista appena andato al governo non ha fatto mistero di ispirarsi alla politica economica di Biden, quella che la neoministra dell’economia Rachel Reeves ama definire la new supply side economics. Una nuova amministrazione Trump fornirebbe certamente un modello di “nazionalismo economico” ai tanti sovranisti che ultimamente sembrano avere molto successo elettorale, anche in Europa.
Vorrei però accennare ad una delle possibili conseguenze dell’agenda Trump di cui mi pare si stia parlando pochissimo. La combinazione di alti dazi commerciali, massicci tagli di tasse e stretta sull’immigrazione potrebbe portare a un brusco ritorno dell’inflazione. Un’inflazione questa volta interamente fabbricata in casa. La risposta della Fed non potrebbe essere altra che quella di alzare i tassi di interesse. Dato il ruolo del dollaro nel sistema finanziario internazionale, questo avrebbe rilevanti conseguenze ben al di fuori degli Stati Uniti. Soprattutto per quei paesi che hanno un debito denominato nella valuta americana, e che avevano appena cominciato a beneficiare della discesa dei tassi. Diversi Stati africani si stanno riaffacciando solo ora sul mercato degli eurobond – ovvero delle obbligazioni denominate in dollari – dopo un paio di anni in cui questa via gli è stata di fatto preclusa.