L’Europa può e deve giocare un ruolo di guida nel presentare un’alternativa globale all’attuale deriva imposta dall’“internazionale sovranista”. – da micromega.net.
La Repubblica dell’Ossola rappresenta una delle pagine più luminose e toccanti della nostra Resistenza. Durata solo una manciata di settimane – dal 10 settembre al 23 ottobre del 1944 – è governata come se dovesse durare decenni. La piccola Repubblica aspira a essere lo stendardo di una rigenerazione civile totale: non solo politica, ma più integralmente culturale e morale. Tre volte a settimana si tiene un corso di storia dell’Europa moderna organizzato dall’Università Popolare animata dal professor Mario Bonfantini. Perfino l’11 ottobre, quando la popolazione sa che il nemico è ormai alle porte e potrebbe piombare su Domodossola in ogni momento, centinaia di persone aspettano Bonfantini nel cinema della città. “Forse è meglio che andiate a casa”, gli dice il professore, consapevole della gravità della situazione. “Se volete, però, la lezione io la tengo”. E la lezione si tiene.
Ma la Resistenza non fu fatta nei cinema. Fu una guerra. E come tale non si poté sottrarre i suoi protagonisti alle tragedie fisiche e spirituali che le guerre portano con sé. “A volte si diventa come delle bestie”, annota sul suo diario il partigiano Aristide Marchetti, dopo un agguato a una colonna di fascisti e nazisti in fuga. “Si fanno cose che poi ci tormentano solo a pensarle. Una donna moribonda giaceva nella cabina di un camion. Quando ci vide mormorò: ‘Per favore, sparatemi alla testa’. Ci pensò William”. Così Giorgio Bocca, nel suo libro Una repubblica partigiana, chiosa il racconto di quell’episodio: “Anche questo bisogna mettere sul conto dei tedeschi e dei fascisti, di aver imposto ai non violenti il bisogno e la pratica della violenza”.
È una considerazione molto amara che non ha perso nulla della propria universalità, insinuandosi nella lacerante contraddizione di ogni coscienza che si misuri con l’obiettivo e l’ideale della pace, e l’analisi razionale dei mezzi più adatti a conseguirla o mantenerla.
Norberto Bobbio è fra i pensatori del Novecento che ci hanno lasciato pagine di riflessione lucidissima sui concetti della pace e della guerra. Nella sua “tassonomia” dei pacifismi elaborata per la voce “Pace” dell’Enciclopedia Italiana, possiamo ritrovare le radici culturali di quelle diverse tendenze che ancora oggi animano il dibattito sulle grandi questioni del nostro tempo, e sulle guerre dei nostri giorni.
Per Bobbio i pacifismi si distinguono principalmente in base alle soluzioni adottate per prevenire i conflitti. Queste soluzioni dipendono dalle cause identificate come origine dei conflitti stessi.
Il “pacifismo liberale” ha cercato di promuovere la convivenza pacifica attraverso una sempre maggiore conoscenza e inter-dipendenza reciproca fra i popoli del mondo tramite lo scambio, il commercio, la “diplomazia degli affari”. All’esprit de conquête deve sostituirsi l’esprit de commerce, per dirla con Benjamin Constant. Il “pacifismo socialista” ha visto al contrario nell’economia capitalista la causa ultima delle tendenze imperialiste degli Stati. Il “pacifismo democratico” si è preoccupato del legame fra istituzioni e politica estera degli Stati, cercando di individuare quali assetti possono incentivare la predisposizione alla pace e scoraggiare la politica di potenza. Le istituzioni democratiche possono mitigare l’aggressività degli Stati perché chi per primo paga le conseguenze della guerra, i comuni cittadini, hanno voce in capitolo sulle decisioni politiche che possono portare alla guerra. È l’idea tipicamente illuminista – ripresa da Kant nel suo Per la Pace Perpetua – del legame necessario fra dispotismo e guerra.
A questi pacifismi “istituzionali” Bobbio contrappone il “pacifismo etico” e quello “strumentale”. Il primo non fa affidamento su particolari assetti politici e istituzioni, ma sulla coscienza dei singoli individui, che sono chiamati a “convertirsi” a un ideale morale fondato sul definitivo ripudio della guerra come massima espressione del “male”. Il “pacifismo strumentale”, infine, punta il dito contro gli armamenti e l’industria bellica, ovvero gli strumenti con cui la guerra è condotta: “Chi ha un gatto che graffia, eviti di sprofondarsi in speculazioni sulla natura del gatto e sulle sue abitudini: gli tagli le unghie”, è la massima, secondo Bobbio, del pacifismo strumentale.
La sola elencazione di queste diverse disposizioni fa capire molto efficacemente perché il mero desiderio di pace non sia di per sé sufficiente a suggerire una univoca “politica per la pace”. Lo abbiamo visto nelle discussioni che hanno attraversato l’Europa a seguito dell’invasione russa dell’Ucraina. Anche fra coloro che si trovavano uniti nella condanna dell’iniziativa di Putin sono emerse sensibilità diverse.
Da un lato c’è chi si è orientato seguendo il principio secondo cui un’aggressione in violazione della integrità territoriale di uno Stato sovrano, e dunque del diritto internazionale, deve trovare una ferma risposta anche in termini di resistenza militare. La conseguenza di un non intervento non determinerebbe solo la capitolazione dell’aggredito, ma creerebbe il pericoloso precedente di un aggressore che viene “premiato” nella sua politica di prevaricazione e potenza. Rinunciare a difendere – anche con le armi – un ordine fondato sul diritto significherebbe consacrare il diritto del più forte. La tutela di istituzioni preposte alla pace rappresenta la maggiore garanzia di pace nel lungo periodo.
Dall’altro lato c’è chi sottolinea che la storia altro non è che un lungo susseguirsi di questi “precedenti”. E che gli stessi che oggi aiutano l’aggredito a difendersi, ieri erano aggressori di innocenti in spregio a qualsiasi regola o diritto internazionale. Tanto vale allora mettere da parte le questioni di principio e darsi da fare per trattare, mettere a tacere le armi, far cessare la carneficina di vite innocenti. Le forze in campo, del resto, non permetterebbero realisticamente di rimediare completamente al torto ricacciando l’aggressore da dove è venuto.
Il ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca è stato un uragano che sarebbe riduttivo considerare solo come una svolta nella politica estera statunitense. Si ha l’impressione di essere entrati in un ordine mondiale di tipo completamente nuovo. O, forse, profondamente vecchio, perché riporta l’eco di epoche in cui l’aggressione di uno Stato ai danni di un altro non incontrava nemmeno la preoccupazione di ammantarsi di una giustificazione legale o morale. Da notare che se Putin ha tirato in ballo la difesa della minoranza russofona nel territorio ucraino per la sua “operazione speciale” (ipocritamente, non ha voluto nemmeno chiamarla “guerra”), Trump ha urlato le proprie mire sulla Groenlandia, e perfino sul vicino Canada, semplicemente perché… America First! Con la stessa inquietante estraneità a qualsiasi senso della storia, del diritto, o forse proprio a qualsiasi senso di “umanità”, il presidente Usa ha proposto la deportazione di due milioni di palestinesi dalla striscia di Gaza.
Il baratro che abbiamo di fronte è quello del ritorno a uno “stato di natura” internazionale, di guerra – se non altro potenziale – di tutti contro tutti.
All’alba dell’epoca moderna il pensiero filosofico europeo aveva utilizzato proprio l’artificio teorico della fuoriuscita dallo “stato di natura originario” per riflettere sulle condizioni di legittimità del potere sovrano. Qualunque fossero i limiti e le prerogative attribuite a tale potere, questi pensatori concordavano sul fatto che è proprio tramite il conferimento del monopolio della forza a un “giudice terzo”, al sovrano, che gli uomini possono convivere in pace. La fonte ultima della pace è la rinuncia degli individui a “farsi giustizia da sé”.
Il grande traguardo che l’umanità fino a oggi non è riuscita a raggiungere è quello della formazione di un “giudice terzo” a livello internazionale. Un’autorità cui conferire il monopolio della forza per evitare che i singoli Stati sovrani si facciano giustizia – o, il più delle volte, ingiustizia – da sé.
Le tragedie della Prima e della Seconda guerra mondiale hanno posto la nostra specie di fronte a un potenziale autodistruttivo mai visto prima di allora nella storia. Ne siamo usciti con una maggiore consapevolezza dell’importanza di un ordine internazionale che potesse prevenire conflitti simili in futuro. Le Nazioni Unite sono state, e sono ancora oggi, la cosa più vicina a quell’ideale di “giudice terzo” internazionale e sistema democratico infra-statale che dovrebbe mediare fra le singole organizzazioni politiche nazionali. Il suo limite maggiore è chiaramente quello di non essere dotato di quel monopolio della forza senza il quale le sue prese di posizione sono spesso apparse come irrilevante flatus vocis e dichiarazione sofferta della propria impotenza (quando tali prese di posizione non sono state soffocate nella culla dai veti incrociati delle grandi potenze).
Resta il fatto che le alternative all’ideale di un ordine internazionale fondato su regole sono solo due: la guerra permanente o l’equilibrio del terrore. Quest’ultima opzione è spesso propugnata – nei fatti, anche se magari non esplicitamente nelle parole – dai cultori della Realpolitik. L’incubo della minaccia nucleare non avrebbe indebolito, ma avrebbe anzi rafforzato l’ineluttabilità e anche la cogenza di questa prospettiva. Dal momento che sarebbe folle per l’umanità intraprendere una guerra in cui nessuno ha possibilità di vincere, e tutti hanno la certezza di essere distrutti, la pace sarebbe l’unico risultato ragionevole dell’equilibrio del terrore. La crisi dei missili a Cuba del 1962 è la prova che, al dunque, uno dei contendenti non può fare altro che cedere.
È lecito ritenere che una figura come quella di Trump faccia venir meno le ipotesi di “razionalità” e “prevedibilità” degli agenti in campo implicitamente assunte dalla teoria dell’equilibrio del terrore (sì, l’uomo che ora detiene i codici dell’arsenale atomico americano è lo stesso che si chiedeva se il Covid non potesse essere curato con iniezioni di disinfettante). Ecco perché oggi più che mai torna di attualità la necessità di difendere quel che rimane di un ordine mondiale fondato su regole condivise, senza perdere di vista che quello è l’inevitabile traguardo verso cui la collettività umana deve indirizzarsi se vuole sopravvivere.
L’Europa non vuole interpretare la parte del “profeta disarmato” in questo nuovo contesto, e ha valide ragioni per cercare autonomia strategica e anche militare da un’amministrazione statunitense che sembra non ragionare più nei termini delle antiche alleanze (e della garanzia di protezione a esse legate). Ma sarà fondamentale in questo contesto che la “pratica del riarmo” non sia accompagnata da una supina accettazione dell’“ideologia del riarmo”, ovvero dall’illusione che solo la deterrenza militare sia sufficiente a mantenere la pace. La Cina non è certo una potenza “erbivora”: è una potenza nucleare che impiega una quantità non indifferente delle proprie risorse per le spese di difesa. Eppure, al momento sembra uno dei player globali meno disposti a gettare all’ortiche quell’insieme di istituzioni, patti, luoghi di mediazione che abbiamo ereditato dal secondo dopoguerra. E fa una certa impressione vedere un paese guidato da un Partito comunista rispondere ai dazi statunitensi presentando una causa presso… l’Organizzazione Mondiale per il Commercio!
Con tutti i suoi problemi interni, la democratica Europa può e deve giocare un ruolo di guida nel presentare un’alternativa globale all’attuale deriva imposta dall’“internazionale sovranista” che ha trovato a Washington il suo principale centro di irradiazione e che usa spesso il linguaggio della pace per propugnare la logica della forza e della sopraffazione.
“Solo la guerra porta al massimo di tensione tutte le energie umane e imprime un sigillo di nobiltà ai popoli che hanno la virtù di affrontarla”, ha scritto Benito Mussolini. I partigiani hanno sconfitto il fascismo armi in pugno. A volte la Storia impone di riconquistare la pace in questo modo. Ma hanno anche contribuito a costruire una Repubblica democratica estranea all’ideologia del dominio e al culto della violenza che hanno contraddistinto il fascismo. Oggi l’Europa è chiamata a dimostrare di saper ancora far tesoro di quella lezione.